domenica 18 dicembre 2011

Ripresa delle pubblicazioni sul mio Blog

Per alcuni mesi delusa perchè nessuno commentava i miei post ho smesso di scrivere sul mio blog e di inserire anche articoli. Ora mi sono decisa di continuare:-)  anche se nessuno leggerà o nessuno commenterà:-(  è importante un blog lo + per fare informazione.
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La Lotta di Classe è finita? un articolo di Guido Viale

La lotta di classe è finita?
di Guido Viale
I DIRITTI DEI PADRONI E QUELLI DEGLI OPERAI
La lotta di classe è finita? Così vorrebbe il "pensiero
unico" dell'ideologia neoliberista
"il manifesto" 31 agosto 2010
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Le vicende riguardanti le lotte operaie di questi ultimi mesi - il più delle volte determinate dalla inderogabile necessità di salvaguardare il posto di lavoro, unica fonte di reddito in grado di far sopravvivere un lavoratore e la sua famiglia - hanno suscitato prese di posizione spesso reazionarie. Tali sono state per esempio, recentemente, quelle di Marchionne, amministratore delegato Fiat, e quelle di Tremonti, ministro delle finanze del governo Berlusconi. Ambedue espresse al meeting di Rimini di Comunione e liberazione, che dimostra di essere diventata una vera e propria lobby politica che nulla ha più a che fare con le dottrine sociali della Chiesa.
Nelle parole di Marchionne, di Tremonti e della Marcegaglia, l'intento è stato più che chiaro: rendere nulli anche gli ultimi diritti conquistati nel corso di decenni dalle lotte dei lavoratori, lotte che hanno avuto un altissimo costo, spesso costituito dalle loro stesse vite - a partire dalle rivendicazioni milanesi per il pane represse a fine Ottocento dalle cannonate di Bava Beccaris (80 morti, 450 feriti) alla strage delle Fonderie Riunite di Modena (gennaio 1950: 6 morti, 50 feriti) fino alla strage di Reggio Emilia (luglio 1960) e a quella di Avola (dicembre 1968).

A Rimini l’amministratore delegato della Fiat ha esposto con la massima chiarezza alcuni suoi «mantra»: 1. L’economia globalizzata impone che l’aumento di produttività nei paesi opulenti sia molto più elevato di quanto negli ultimi trent’anni non sia avvenuto, per tenere il passo con quanto avviene nei paesi emergenti e non perdere altro terreno nei loro confronti. 2. La lotta di classe è finita perché non ci sono più classi. 3. La domanda di automobili in Occidente è molto diminuita ed è tuttora in calo, perciò bisogna concentrare la produzione in un numero limitato di imprese, riducendo il numero delle unità prodotte e aumentando la competitività. 4. I lavoratori debbono accettare nuove regole sulla flessibilità negli orari, sul ricorso allo sciopero, sulla struttura del salario e dei contratti. 5. La giurisdizione del lavoro dovrà, di conseguenza, essere aggiornata. 6. Forme di partecipazione dei lavoratori ai profitti derivanti dall’aumento della produttività sono auspicabili e vanno incentivate. 7. Le parti sociali debbono premere sui governi per ottenere nuovi tipi di «welfare» appropriati alle nuove regole.
In questo intervento di Marchionne colpiscono non solo alcuni contenuti reazionari, ma alcune omissioni, la più vistosa delle quali riguarda le diseguaglianze retributive che hanno raggiunto livelli inaccettabili. Marchionne può dire che questi problemi non lo riguardano ma negherebbe con ciò l’evidenza: ogni persona e quindi ogni lavoratore vive in un contesto sociale che non può essere parcellizzato ed è inserito in un contesto globale.
Nel corso del meeting di Rimini, il giorno prima di Marchionne aveva parlato Giulio Tremonti. Un discorso ampio, di economia, di finanza e di politica. L’intervento di Tremonti è stato ampiamente riferito dai giornali, c’è soltanto un punto che occorre ricordare. Il ministro – scrive Eugenio Scalfari – "ha parlato di austerità ricordando che in anni ormai lontani quel concetto fu patrocinato da Enrico Berlinguer che propose di farne il cardine d’una nuova politica economica. È vero, Berlinguer vide con trent’anni di anticipo il grande riassetto sociale che stava arrivando, ne colse alcune implicazioni che riguardavano la politica e le istituzioni, decise di orientare in modo nuovo la politica del suo partito affinché si ponesse alla guida di quel riassetto. Non fu soltanto Berlinguer a imboccare quella strada. Nel Pci a favore d’una politica di austerità si schierò Giorgio Amendola, nel sindacato Luciano Lama, negli altri partiti Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Gino Giugni e Giorgio Ruffolo, Bruno Visentini. Nella Dc, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. Insomma la sinistra di governo e la sinistra di opposizione".
Tremonti però non ha reso esplicito il significato di quella posizione. Berlinguer voleva che fosse la sinistra a guidare il riassetto sociale incombente, per garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo. Questo aspetto del problema è stato oscurato dal ministro ed è invece l’aspetto fondamentale.
Scrive ancora Scalfari: "Se si deve attuare una vasta modernizzazione istituzionale e un trasferimento di benessere sociale dalle economie opulente verso quelle emergenti; se un così gigantesco riassetto non può essere disgiunto da un riassetto analogo all’interno delle aree opulente; è evidente che i più deboli debbono partecipare in primissima fila a questa operazione. I ceti medi e medio-bassi non possono essere oggetto del riassetto sociale senza esserne al tempo stesso il principale soggetto. Questo è il punto che manca all’analisi di Tremonti e che Marchionne ha vistosamente omesso come l’ha omesso la Marcegaglia. L’intero meeting di Rimini su questo punto ha taciuto: omissione tanto più vistosa in quanto avvenuta in una occasione promossa da una delle principali Comunità cattoliche, con tanto di benedizione papale e presenze cardinalizie".
Due brevi passaggi degli interventi di Enrico Berlinguer (1977 e 1979):
"Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'Occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario. […] Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base".
E ancora:
"La politica di austerità quale è da noi intesa può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l'istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. 'Lor signori', come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l'assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo, che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi venti-venticinque anni, e, insieme, di abbassare i salari".
E, aggiungo, io, di cancellare tutti i diritti.
Qui di seguito propongo l'articolo dell'economista Guido Viale, dal "manifesto" di oggi.

Per Marchionne, per la Marcegaglia e per molti altri che hanno frequentato il meeting di Comunione e liberazione la lotta di classe è un residuo di un passato da superare, così come lo è la conflittualità sindacale o la lotta «tra operai e padroni». Così si capisce meglio dove mirassero le tante polemiche fuori tempo massimo contro il '68 e la sua cultura distruttiva. Però, come giustamente ha fatto notare Adriano Sofri sulla sua piccola posta, la frase «basta lotta tra padroni e operai» prende una sfumatura diversa a seconda che a pronunciarla sia un operaio oppure un padrone. In effetti per tutti costoro quello che è o va superato è la lotta degli operai contro i padroni, o dei lavoratori contro le imprese e i loro imprenditori, perché l'altra, quella dei padroni contro gli operai è in pieno corso e va a gonfie vele.
Come altro si può intendere, infatti, la situazione di quelle migliaia di lavoratori lasciati sul lastrico da padroni, spesso bancarottieri, che si sono impossessati di un'impresa per distruggerla o ridimensionarla grazie ai meccanismi messi in campo dalla finanza internazionale? O le delocalizzazioni fatte per liberarsi di una manodopera troppo costosa? O la diffusione del lavoro precario che distrugge qualsiasi possibilità di costruirsi una vita e un futuro? O la tesi di Tremonti, secondo cui la normativa sulla sicurezza sul lavoro (legge 626) è ormai insostenibile per le imprese, nonostante le morti sul lavoro ufficialmente accertate siano più di mille all'anno, e altrettante, e forse più, siano non accertate, perché morti «bianche» provocate dal lavoro «nero»?

L'accondiscendenza politica e sindacale verso il primato assoluto dell'impresa - che è l'ideologia sottostante a queste prese di posizione - ha impregnato talmente il sentire comune che nell'affrontare questi temi i loro corifei non si rendono nemmeno più conto di quel che dicono. Sentite Marchionne al meeting di Rimini: «Non credo sia onesto usare il diritto di pochi per piegare il diritto di molti». Pensa di parlare di tre degli operai che ha fatto licenziare per rappresaglia contro la Fiom, ma la stessa frase potrebbe essere letta in un altro modo. Quali sono «i diritti di pochi»?

Non sono forse quelli dei padroni della fabbrica? O, meglio, degli azionisti di riferimento (gli altri sono «parco buoi») e dei manager che si sono scelti e che guadagnano, tutti quanti, milioni di euro all'anno: 3-400 volte di più dei «molti» che lavorano per loro. E chi sono quei «molti» i cui diritti vengono «piegati» dai «pochi»: quelli che un picchetto o un'assemblea in fabbrica ha magari dissuaso dal cedere al ricatto dell'azienda? O quelli «piegati» a dire di sì in un referendum sotto la minaccia di perdere per sempre il loro posto di lavoro? E ancora (è sempre Marchionne che parla): «La dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti».

Certo la dignità e i diritti di alcuni «tre», per esempio Marchionne, Elkann e Montezemolo, oppure Tremonti, Sacconi e la Sig.ra Marcegaglia, non sembrano messi in discussione. Ma che dire di migliaia di lavoratori posti di fronte al diktat di accettare condizioni di lavoro inaccettabili, contrarie alla loro dignità (ma si è mai vista la «pausa mensa» a fine turno, dopo otto ore di lavoro quasi senza pause? E perché non li si lascia andare a mangiare a casa loro? Perché siano pronti per il lavoro straordinario) e contrari ai loro diritti (quello, sacrosanto di garantirsi un brandello di vita familiare libera da turni e straordinari; o quello di scioperare).
Questa storia della fine della lotta tra operai e padroni, con cui i vincenti di oggi si riempiono la bocca trattando i diritti dei perdenti come carta straccia, ricorda da vicino la storia della «fine delle ideologie». In realtà, a scomparire dai radar è stata solo l'ideologia socialista, con le sue varianti anarchica e comunista. Le altre, quella liberale, trasformata in liberismo e in «pensiero unico» è più viva che mai (anche se è più che mai un morto che cammina). E la dottrina della chiesa, trasformata in fondamentalismo cattolico («diritto alla vita» contro i diritti di chi vive), anche.