Il capello corvino, il baffo spiovente, la t-shirt col girocollo largo per meglio mostrare il pelo. Sembra un centrocampista dell’Avellino di Sibilia. O il cantante di un gruppo melodico da Sanremo Anni Settanta, tipo i Milk and Coffee. O un caratterista in un film di Michele Massimo Tarantini con qualche dottoressa del distretto militare che a brevissimo, e senza apparenti esigenze narrative, sentirà il bisogno inderogabile di fare una doccia.

Invece si tratta verosimilmente del tizio che il 2 agosto 1980 ha piazzato la bomba nella sala d’attesa di seconda classe della “mia” stazione. Che ha ammazzato 85 persone e polverizzato una bambina, Angela Fresu, in omaggio a chissà quali raffinatissime strategie della tensione che magari passano da Ustica, certamente da Villa Wanda ad Arezzo, facendo un bel giro largo per Washington e Roma, zona Sismi.

A leggere il curriculum di Paolo Bellini, l’aviere, il tizio che aveva sempre negato di essere in città quel giorno, c’è da spaventarsi: aviere, appunto. Con un piccolo mezzo volante su cui scarrozzava il Procuratore di Bologna, a. D. 1980. Collaboratore dei carabinieri e infiltrato in Cosa Nostra. Killer ‘ndranghetista. Un mazzo di omicidi regolarmente confessati tranne appunto la strage della stazione. Non c’era, diceva. Quel giorno era quasi sempre via. Nello specifico al mare, a Rimini, con la famiglia, con la moglie. Che aveva a suo tempo confermato e che ieri in aula ha invece spiegato che no, che non solo Bellini non era con lei, non solo si era inventata l’alibi perché credeva fosse innocente, non solo era stata convinta a farlo dal padre, pure lui fascistone e amico del Pm che volava con Bellini, ma soprattutto che… “eccolo”, ha detto. Eccolo lì, nelle immagini girate poco prima del botto da un turista svizzero. Eccolo: poco prima, verosimilmente, di scannare innocenti a casaccio. Ma con un obiettivo preciso.

Il processo è ancora in corso, a quarant’anni e rotti dal momentaneo apogeo dello Stato omicida, dai cani neri usati per mordere alle caviglie la democrazia. Ma lentissimamente, col solo impegno dei familiari delle vittime, che hanno trovato quel Super 8 sottraendolo alla deliberata pigrizia investigativa, tutto si ricompone: gli esecutori che dicevano di non esserlo, i dollari americani nelle tasche di Gelli, i depistaggi che depistavano per motivi finalmente chiarissimi. Che ci erano poi chiari fin da subito.

Abbiamo sempre saputo che a Bologna erano stati i fascisti, così come a Ustica è stato un missile francese. Ma, come tanti Pasolini privati della voce, non avevamo le prove. Ora che lentamente emergono, ora che conquistano anche un volto, quel volto, la saldatura tra terrorismo rosso e nero è completa, sulla base di un duplice collante morale: ignavia, opportunismo.

Così come i Brigatisti Rossi hanno sempre taciuto le millanta zone grigie del loro agire, i loro contatti con le fazioni più oscure dello Stato che dicevano di voler abbattere, ottenendo in cambio la mitezza della legge e la libertà, i terroristi neri ci hanno raccontato per quattro decenni la favoletta del “ma Bologna no”. A cominciare da Mambro e Fioravanti, liberi da tempo, anche di professare la loro innocenza sulla base di un nitore etico inventato a mo’ di cortina fumogena. Loro, ma anche l’aviere, inventori di una morale selettiva che serviva principalmente a onorare il patto oscuro coi committenti.

Anche se. Anche se è vero che negli anni fior di attivisti dei partiti post-fascisti (in prima fila alcuni avvocaticchi bolognesi, ma anche diversi esponenti nazionali di primo piano) si sono molto battuti, spalleggiatissimi dalle zone opache, per alimentare piste alternative: colombiani, palestinesi, solo non si vedevano i due liocorni. Tutto pur di occultare quel che era chiaro da subito: una strage di Stato eseguita da manovalanza fascista.

A loro, soprattutto a loro, è dedicato quel video: il tizio coi baffoni che avanza nella folla di morituri è uno di quelli che hanno difeso per quarant’anni. Si specchino. E, se ne sono capaci, si vergognino un po’.